Fondazione Veronesi: “Come riconoscere una “vera” cistite?”

Alla domanda risponde sul portale della Fondazione Veronesi, la Dott. ssa Monica Sommariva, dirigente medico della divisione di urologia dell’ospedale Fornaroli di Magenta, Azienda Ospedaliera di Legnano. 

Una delle prime indicazioni del passaggio da un bisogno di semplice urgenza minzionale allo sviluppo di cistite, anche nella sua forma cronica, è il fattore temporale.

Ovvero il desiderio di urinare sempre più ripetitivo, spesso accompagnato da bruciore e urgenza, con intervalli  più ravvicinati durante il giorno e la necessità di alzarsi  più volte nel corso  della notte a causa di una sensazione incessante di pesantezza sovrapubica.

Si tratta di condizioni e sensazioni che aumentano con il passare degli anni: infatti anche la vescica invecchia, e a poco a poco tenderà a svuotarsi sempre di meno, anche in funzione di un naturale abbassamento dell’organo, e ad appoggiarsi su un piano perineale anch’esso meno elastico e più cedevole.

Fattori, questi, che non solo non agevolano il completo svuotamento della vescica, ma anzi favoriscono un ristagno di urina la quale può andare incontro a infezioni di origine batterica intestinale, generalmente da escherichia Coli, o talvolta da Proteus e Klebsiella, questi ultimi più aggressivi.

I batteri intestinali non sono sempre nocivi, anzi: quando si trovano in una condizione di equilibrio (eubiosi) svolgono una azione benefica, producendo vitamine e sostanze essenziali per il benessere e la sopravvivenza dell’organismo e mantengono efficiente il sistema immunitario intestinale.

Diventano cattivi quando per fattori esterni – per lo più dipendenti da una cattiva funzionalità intestinale (stipsi, diarrea, colon irritabile), da una dieta scorretta o da un uso indiscriminato di antibiotici – entrano in una condizione di disbiosi, ossia un disequilibrio batterico con proliferazione di agenti patogeni.

Se questi batteri nocivi proliferano, essendo dotati di fimbrie (pedicelli), possono fuoriuscire dall’ano, contaminare il perineo, entrare in vagina e quindi in vescica risalendo la breve uretra femminile, dando origine alla cistite.

Oltre l’età, le abitudini dietetiche sbagliate e una cattiva funzione intestinale, esistono altri fattori di rischio che favoriscono la cistite: fra questi indumenti intimi o jeans, troppo stretti e sintetici che impediscono una buona traspirazione a livello del piano perineale; la scarsa idratazione, infatti bevendo e urinando adeguatamente si induce un lavaggio meccanico delle vie urinarie, ma soprattutto una cattiva igiene.

L’incapacità di lavarsi correttamente dopo l’evacuazione – ovvero dal davanti verso il dietro, non all’opposto per evitare una contaminazione fecale e mai in acqua stagnante – ma anche il ricorso a detergenti troppo aggressivi, irritanti e schiumogeni, anziché a prodotti idratanti e lenitivi, preferibilmente a base di acido ialuronico, possono stimolare l’insorgenza della cistite.

Una particolare attenzione va posta alla terapia. Nel trattamento della cistite non è indicato l’uso di antibiotici – salvo in presenza di febbre oltre il 38°C – bensì di antimicrobici.

Fra questi, resta ancora di comune utilizzo la nitrofurantoina che, oltre ad avere una escrezione totalmente urinaria e un’azione battericida con pochi effetti collaterali, può essere somministrata a scopo profilattico per lungo tempo.

Una recente alternativa è il D-mannosio, uno zucchero assumibile anche per 6-8 mesi continuativi, capace di formare su tutta la via escretrice un film scivoloso che impedisce l’adesività dei batteri alle pareti delle mucose favorendone l’espulsione meccanica con le urine.

Queste terapie sono efficaci sia in fase acuta, con dosaggi più elevati, sia come profilassi combinando un basso dosaggio di disinfettante (nitrofurantoina) a un dosaggio medio, intorno ai 2 gr di D-mannosio, protratto nel tempo (anche per 6 mesi) al fine di impedire una reinfezione.

Da evitare sono poi gli eccessi in sostanze acide come la vitamina C o il cranberry che irritano la delicata mucosa vescicale favorendo la perdita dello strato protettivo dei glicosaminoglicani con conseguente facile penetrazione di batteri in profondità in assenza di una barriera.

Tuttavia per risolvere in maniera definitiva la cistite, occorrerà dapprima regolarizzare la funzionalità intestinale, seguire una dieta corretta che privilegi cibi semplici e fibre, svolgere attività fisica, trattare situazioni concomitanti quali prolassi genitourinari oppure disturbi della minzione dipendenti da altre patologie.

Rimane fondamentale inquadrare l’efficienza vescicale con esami funzionali, in particolare l’uroflussometria che consente di valutare la presenza di residuo post-minzione, completata eventualmente da un esame urodinamico.

Utili sono le visite specialistiche coloproctologiche in caso di prolasso rettale e ginecologiche per escludere invece un prolasso uterino. Una corretta diagnosi consentirà allo specialista di impostare un efficace trattamento per la prevenzione o la profilassi della cistite.

Fonte: Fondazione Veronesi.it

Long-Covid: sintomi e soggetti più colpiti

LONG-COVID: DI COSA SI TRATTA?

Fame d’aria. Astenia. Sono queste la manifestazioni più frequenti della Long-Covid. Sintomi comuni a chi ha affrontato la malattia, che inizialmente si pensava però che svanissero con la guarigione. Se non già nel momento della negativizzazione, pochi giorni dopo. Così non è, invece. O meglio: non sempre. «Dopo un anno di pandemia, possiamo dire che la maggior parte delle persone si porta dietro uno strascico di questa malattia per diverso tempo», afferma Sandro Iannaccone, primario dell’unità di riabilitazione disturbi neurologici cognitivi motori dell’Irccs ospedale San Raffaele. Nel suo ambulatorio dedicato alla presa in carico dei pazienti colpiti dalla Covid-19 e non del tutto guariti, «ci sono ogni giorno persone che si portano dietro disturbi anche da sei mesi. E soltanto in alcuni casi i sintomi risultano attenuati rispetto alle prime settimane». Già, i sintomi: di quali si tratta? Detto dei più frequenti, «nella nostra casistica rilevabili nel 60-70 per cento dei pazienti entrati in contatto con il virus», a livello fisico si registrano spesso i dolori muscolari e articolari. Le altre manifestazioni riguardano invece il piano neurologico e quello psichiatrico e sono quelle che svaniscono più lentamente: difficoltà di concentrazione e attenzione, perdita di memoria, disturbo post-traumatico da stress (Ptsd). Mentre la perdita dell’olfatto, che assieme a quella del gusto rappresenta uno dei primi campanelli d’allarme della malattia, «persiste nel tempo soltanto nel dieci per cento dei pazienti».

COVID-19: QUANTO A LUNGO POSSONO DURARE I SINTOMI?

Con un anno di esperienza sulle spalle, nessuno ha più dubbi. Nella maggior parte dei casi, le persone recuperano dalla Covid-19 tra le due e le sei settimane dopo aver eliminato ogni traccia del virus. Non sempre, però, visto che da settembre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ricorda che «in alcune persone i sintomi possono permanere anche per diversi mesi». Un periodo durante il quale la persona si porta dietro i segni della malattia, ma non è più infettiva. Iannaccone: «Oggi tendiamo a parlare di Long-Covid quando, due mesi dopo la negativizzazione, un paziente continua a manifestare uno o più dei sintomi indicati». In linea di massima, più grave è stata la malattia, maggiore rischia di essere l’entità dei sintomi nel tempo. Ma non è detto, comunque, che la Long-Covid possa accompagnare anche persone che, una volta infette, hanno avuto soltanto la febbre, la tosse e un po’ di spossatezza. In questo caso – è l’ipotesi dei ricercatori – potrebbe essere una predisposizione genetica a favorire la persistenza dei sintomi.

QUALI LE POSSIBILI CAUSE DEL LONG-COVID

L’origine della malattia è infettiva e i polmoni rappresentano i primi organi colpiti dall’infezione. Ma pur non conoscendo ancora tutto, oggi sappiamo molto di più della Covid-19. La malattia, nei casi più gravi, può innescare una forte risposta infiammatoria in grado di dar vita a fenomeni di trombosi. Questi, oltre a rappresentare un rischio nella fase acuta dell’infezione, possono nel tempo lasciare il segno sugli organi colpiti. Un simile aspetto, unito a una possibile reazione autoimmune indotta dal virus, rientra tra i principali indiziati alla base della Long-Covid. Come spiega l’Istituto Superiore di Sanità sul proprio sito, il virus potrebbe inoltre «presentare alcune similitudini con componenti dell’organismo e far generare anticorpi che possono reagire anche contro i nostri organi o tessuti, provocando le manifestazioni cliniche descritte». Oltre ai polmoni e all’apparato muscolo-scheletrico, il cuore, i reni e il cervello sembrano essere i distretti più esposti al rischio di una lunga sequela della malattia.

LONG-COVID ANCHE PER DONNE E BAMBINI 

Se nei primi mesi della malattia si ci è soffermati soprattutto sui rischi per la popolazione maschile, rispetto alla Long-Covid sembra esserci una maggiore parità di genere. Anzi. Alcuni studi condotti nell’ultimo anno hanno evidenziato una maggiore incidenza del problema tra le donne. «Il possibile risvolto su base autoimmune potrebbe giustificare la più elevata incidenza di questa sindrome nel sesso femminile», è l’ipotesi avanzata dai ricercatori dell’istituto Superiore di Sanità. Un aspetto che potrà essere chiarito soltanto studiando la presenza e le caratteristiche degli autoanticorpi presenti nel siero dei pazienti. Quello che si sa, sulla base di uno studio condotto dagli specialisti del Policlinico Gemelli di Roma, è che la Long-Covid può manifestarsi anche nei bambini. Più della metà di coloro che hanno partecipato allo studio (al momento disponibile soltanto sulla piattaforma MedXRiv) ha riferito almeno un sintomo persistente anche dopo 120 giorni dalla risoluzione dell’infezione. E oltre 4 su 10 ha ammesso di sentirsi limitato da questi sintomi durante le attività quotidiane. I sintomi più frequenti sono stanchezza, dolori muscolari e articolari, mal di testa, insonnia, problemi respiratori e palpitazioni.

L’IMPORTANZA DELLA RIABILITAZIONE

Se la malattia acuta non è ancora del tutto nota, molte meno sono le certezze per quel che riguarda la Long-Covid. Chi sono i pazienti più a rischio? Probabilmente coloro che, già prima dell’infezione, risultavano obesi, ipertesi o affetti da una malattia mentale. Sulla base di quale decorso è immaginabile una guarigione lenta e duratura? Nessuno, al momento, ha la risposta. Quali conseguenze rischia di lasciare la malattia sull’organismo, a lungo termine? «Non lo sappiamo, è ancora presto per dire se la Covid-19 lascerà delle cicatrici a lungo termine – sostiene Iannaccone -. Quello che sappiamo è che molto dipende dalla capacità dell’organismo di rispondere all’infezione virale. E che oggi dovremmo interrogarci su come potenziare la riabilitazione per questi pazienti. Abbiamo la certezza, dopo un anno di pandemia, che quanto più questa è precoce, tanto più rapida e completa è la ripresa».


QUANDO ANDARE DAL MEDICO?

Per chi è chiamato a curare la malattia in ospedale, l’ideale sarebbe iniziare questo percorso già durante il ricovero. Per tutti gli altri, che sono la gran parte dei reduci dalla Covid-19, il consiglio di Iannaccone è il seguente: «Se dopo due mesi si avvertono ancora alcuni dei sintomi della malattia, occorre consultare il proprio medico di base, un cardiologo o un fisiatra. Attraverso alcuni esami specifici, dalla spirometria al test del cammino in 6 minuti, è possibile avere subito alcune importanti indicazioni sulla necessità e sulla tipologia di riabilitazione da effettuare. Dobbiamo dedicare molta attenzione a questi pazienti. Visti i numeri della pandemia, il rischio è quello di trovarci una lunga sfilza di malati cronici nei prossimi anni».

Fonte: Fondazione Umberto Veronesi

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